Quali sono le attuali possibilità di trattamento dell’HCC e quando sono percorribili?
Come si è detto in precedenza, la scelta del trattamento in un paziente con HCC dipende dalla estensione del tumore (dimensioni, numero di noduli, sede del tumore in rapporto con le strutture nobili del fegato come i vasi o le vie biliari), dalle condizioni generali e dall’età del paziente (co-morbidità generali), dallo stadio di compenso della eventuale cirrosi o epatopatia cronica (classe di Child-Pugh o punteggio MELD) oltre che dalla disponibilità di tutte le cure potenzialmente proponibili nel Centro a cui ci si rivolge. Le principali soluzioni di trattamento oggi disponibili per l’HCC sono le seguenti:
Resezione epatica (asportazione chirurgica del tumore)
L’intervento chirurgico è il trattamento di scelta per l’HCC in stadio precoce. Ogni paziente con HCC deve essere in prima istanza valutato per un trattamento chirurgico di resezione (asportazione di parte del fegato in cui è localizzato il nodulo). In genere è possibile in pazienti di tutte le età e può essere effettuato sia con tecniche tradizionali di chirurgia “aperta” che con le più moderne tecniche di chirurgia “laparoscopica” o robotica. La scelta del tipo di approccio deve essere fatta da chirurghi esperti in grado di poter eseguire entrambe le tecniche adattandole alle condizioni del tumore e del paziente. I pazienti che sono sottoposti a chirurgia di resezione del tumore hanno in genere una buona funzione epatica e un buon compenso della propria epatopatia o cirrosi (stadio A di Child- Pugh). La resezione epatica può essere eseguita anche in prospettiva del trapianto (vedi più avanti) oppure al termine di altre cure non-chirurgiche che abbiano permesso una riduzione del volume tumorale e/o un suo migliore isolamento tecnico.
Figura: Rappresentazione schematica delle principali forme di resezione epatica
La rimozione di parte del fegato con un intervento di resezione viene in genere ben tollerata a patto che la quantità di fegato che viene asportata non sia eccessiva, ovvero non superiore al 40% del volume totale del fegato. Il principale rischio della resezione epatica è infatti l’insufficienza epatica del fegato residuo. Il volume epatico sufficiente a mantenere i pazienti con HCC in buona performance viene calcolato con precisione nei Centri di medio-alto livello tecnico, dove ogni aspetto del paziente, del tumore e del fegato su cui si esegue l’intervento, viene soppesato in relazione alle eventuali altre opzioni di cura disponibili.
Lo scompenso cirrotico severo, la presenza di ipertensione portale con varici esofagee e severa piastrinopenia e/o di metastasi, controindicano l’intervento chirurgico di resezione.
Terapie loco-regionali interventistiche sul tumore
Nei casi in cui l’intervento chirurgico di resezione del tumore non è indicato o non è tecnicamente eseguibile, esiste la possibilità di eseguire “trattamenti loco-regionali” ovvero trattamenti non strettamente chirurgici ma diretti comunque alla distruzione del tumore lasciato nella sede dove è originato. Tale sede di localizzazione del tumore epatico può essere distrutta (ablata) con mezzi fisici come il calore o con agenti embolizzanti in grado di bloccare l’accesso di sangue al tessuto tumorale oppure per mezzo di radiazioni ionizzanti veicolate da microsfere coperte di isotopi radio-emittenti.
L’azione del calore che per mezzo di aghi speciali è in grado di “bruciare” il nodulo di HCC è denominata termoablazione.
La terapia che riduce l’apporto di sangue al tumore per mezzo di agenti embolizzanti combinati con farmaci chemioterapici è denominata chemioembolizzazione trans-arteriosa (spesso abbreviata con la sigla TACE).
La terapia che veicola isotopi radioattivi che portano radiazioni ionizzanti al tumore si definisce radioembolizzazione (abbreviata in TARE o SIRT).
Come per l’intervento chirurgico di resezione, la scelta fra questi trattamenti dipende non soltanto dal numero e dalle dimensioni dei noduli di HCC, ma anche dalla severità della malattia di fegato concomitante e dalle condizioni cliniche generali del paziente.
Anche per i trattamenti loco-regionali esiste un maggior spazio di manovra e una maggiore probabilità di successo quanto più precoce è la diagnosi di un HCC in genere in stadio intermedio, spesso non sottoponibile a intervento chirurgico.
Sulla importanza della diagnosi precoce in pazienti a rischio da sottoporre a ecografia periodica si è detto più sopra e a tali considerazioni si rimanda.
La terapie loco-regionali possono essere controindicate in caso di tumori molto avanzati. I casi in cui non è possibile usare terapie loco-regionali sono quelli in cui sono presenti le complicanze della cirrosi epatica come l’ascite, l’encefalopatia porto-sistemica o l’ittero. In questo senso, è fondamentale il ruolo delle terapie eziologiche, cioè quelle rivolte contro la causa della malattia di fegato. Ad esempio i farmaci ad azione antivirale diretta (DAAs) sono in grado di ridurre il rischio di scompenso epatico nei pazienti con cirrosi epatica da HCV e quindi possono permettere un migliore utilizzo delle terapie loco-regionali nei pazienti con HCC associato a una cirrosi da HCV.
Termoablazione
La termoablazione può esser eseguita sia dall’esterno (per via percutanea) con aghi che passando dalla cute del paziente vengono guidati sino alla sede del tumore nel fegato, sia internamente durante interventi chirurgici in genere condotti per via mini-invasiva (per via laparoscopica).
Viene utilizzata in caso di tumori in fase precoce o di piccole dimensioni insorti in pazienti candidati a trapianto oppure con condizioni di compenso epatico non ottimali o in pazienti che hanno delle co-morbilità o delle controindicazioni all’intervento chirurgico di resezione o non possono essere sottoposti ad anestesia generale.
Oltre che per il trattamento dell’epatocarcinoma, la termoablazione può essere eseguita in casi selezionati di alcuni tipi di metastasi epatiche.
Dal punto di vista tecnico, la termoablazione si basa sull’uso del calore generato da aghi speciali in grado di veicolare in alcune loro parti energia elettrica in forma di radiofrequenze o di microonde.
La massa tumorale deve essere “infilzata” da tali aghi o “uncinata” ad essi e quindi ablata dal calore che sotto controllo di apposite apparecchiature si espande attorno all’ago stesso, creando una sorta di “sfera di calore” in corrispondenza del nodulo di tumore, le cui cellule vengono così distrutte in pochi minuti dalla temperatura che oscilla in genere tra i 60° ai 100° gradi celsius.
L’intervento di termoablazione percutanea dei tumori del fegato viene eseguito in anestesia locale con una sedazione variabile ma comunque e sempre in ambiente ospedaliero. Diffidare e non accettare procedure di termoablazione offerte in Strutture non adeguate o ambulatoriamente.
In ragione della sua minore complessità rispetto all’approccio chirurgico tradizionale, la termoablazione percutanea dei tumori del fegato è associata a minori rischi di complicanze severe e di mortalità rispetto alla resezione chirurgica. La limitazione più frequente della termoablazione è però rappresentata dalle dimensioni del nodulo tumorale da trattare: maggiori sono le dimensioni del nodulo di HCC e minori sono le chances di riuscire a distruggerlo davvero in modo completo. Nella gran parte degli studi condotti su questo argomento, si è appurato che il rischio di eseguire un trattamento incompleto ovvero di lasciare residui di tumore vitale dopo la termoablazione, diventa molto serio a partire dalle dimensioni del tumore superiori a 3 cm di diametro.
Per superare questo problema si sono provate varie tecniche, tra cui anche le infissioni multiple di aghi con più trattamenti su uno stesso nodulo ma è un fatto che per noduli di HCC superiori ai 3 cm la termoablazione rimane gravata da alti tasi di recidiva.
La termoablazione in genere non preclude la considerazione successiva per un intervento chirurgico anche se esistono molte differenze tra paziente e paziente.
La termoablazione percutanea dei tumori del fegato è indicata nei casi di HCC che rientrano nei Criteri di Milano (una sola lesione di dimensioni inferiori ai 5 cm o lesioni multiple non superiori a 3 e di diametro non superiore a 3 cm), può anche essere praticata in caso di recidive di HCC dopo interventi di resezione o a completamento di altri trattamenti, come ad esempio la chemioembolizzazione. È molto spesso utilizzata nei pazienti candidati a trapianto per HCC, per tenere “sotto controllo” la crescita del/i nodulo/i tumorale/i durante la attesa del trapianto.
In genere non è buona norma trattare con la termoablazione noduli multipli e diffusi o tumori molto grandi e infiltranti. Allo stesso modo, una sicura controindicazione alla termoablazione sono i tumori molto vicini alle strutture biliari o vascolari importanti del fegato (rami portali o sovraepatici).
La termoablazione è un problema in pazienti cirrotici con gravi difetti della coagulazione o grave ipertensione portale, dove il passaggio dell’ago nel fegato può risultare decisamente pericoloso per il pericolo di sanguinamento severo.
Alcolizzazione
È la terapia percutanea originariamente proposta per distrugge un nodulo tumorale ed è stata banco di prova per le successive evoluzioni degli aghi attualmente usati per la termoablazione.
In questa tecnica viene utilizzato l’etanolo, che è un tipo di alcool che diffonde all’interno del nodulo “punto” da un ago sottile che permette l’iniezione diretta nel tumore. La diffusione dell’alcool nel nodulo di HCC è favorita dal- l’aumentata vascolarizzazione tipica di questo tumore e dalla diversa consistenza del tessuto tumorale, che è più “soffice” rispetto al tessuto cirrotico circostante. Quando comunque l’etanolo arriva a contatto con le cellule tumorali ne provoca una disidratazione molto potente con conseguente distruzione della loro membrana cellulare e con morte (necrosi) conseguente.
L’alcoolizzazione è una terapia loco-regionale in qualche modo più operatore-dipendente di quanto sia la termoablazione. Come la termoablazione viene realizzata in anestesia locale, con un ago sottile a punta conica chiusa e dotato di fori laterali vicino all’estremità, da dove fuoriesce l’alcool al momento dell’iniezione nel tumore.
A differenza della termoablazione, l’alcoolizzazione viene ripetuta più volte e spesso all’interno della stessa seduta, perché deve essere sempre ben controllata la quantità di alcool iniettata e la sua effettiva diffusione, evitando “stravasi” che posso causare complicanze al di fuori del tumore e/o nei vasi sanguigni o biliari vicini alla sede del trattamento. Esistono anche tecniche di infusione di quantità significative di etanolo per condizioni specifiche ma si tratta di procedure praticate in pochi Centri dove è disponibile sia una anestesia generale che la disponibilità di accesso a reparti di Rianimazione, a causa del rischio nettamente aumentato di complicanze. In genere, quanto maggiore è il numero di sedute necessarie per trattare un singolo nodulo di tumore, quanto minore è l’efficacia del trattamento stesso, in relazione sia alle dimensioni del tumore che alla difficoltà che a volte si riscontra nel raggiungere il bersaglio desiderato.
Anche per la alcoolizzazione la dimensione del tumore è infatti direttamente correlata alla efficacia del trattamento: per l’alcoolizzazione la dimensione “limite” del nodulo tumorale che permette di prevedere un buon risultato scende a 2 cm di diametro. In questo contesto preciso dei piccoli noduli di tumore e in mani esperte, l’alcoolizzazione ha un’elevata efficacia ed è associata a un tasso di complicanze molto basso. Le indicazioni all’alcoolizzazione sono sostanzialmente le stesse ricordate più sopra per la termoablazione.
Chemioembolizzazione transarteriosa (TACE)
L’embolizzazione transarteriosa dell’HCC è una procedura endovascolare, eseguita incannulando l’arteria che veicola il sangue al fegato (arteria epatica). Per mezzo di un catetere speciale è cioè possibile iniettare nel tumore agenti embolizzanti, cioè sostanze in grado di bloccare (embolizzare) l’accesso di sangue al tumore e quindi di nutrimenti e ossigeno.
La TACE è quindi una procedura non-chirurgica eseguita nelle sale radiologiche sotto controllo fluoroscopico. Nel dettaglio essa consiste nella puntura in anestesia locale di un vaso sanguigno all’inguine da cui poter inserire un catetere molto sottile e flessibile che viene guidato sino all’arteria epatica e ai suoi rami più lontani (embolizzazione selettiva o ultraselettiva). Da tale catetere il radiologo interventista controlla l’iniezione degli embolizzanti e l’avvenuto blocco del flusso di sangue nelle zone del tumore. Come tutti i tessuti viventi, le neoplasie hanno bisogno di continuo afflusso di sangue e quindi in presenza di uno stop causato dalla embolizzazione il tessuto tumorale diventa prima ischemico e poi necrotico. Quando alle sostanze embolizzanti si aggiungono farmaci chemioterapici in combinazione, si parla di chemio-embolizzazione. Per mezzo della aggiunta di chemioterapici la chemioembolizzazione (TACE) migliora e potenzia l’effetto della sola embolizzazione (TAE) e aggiunge all’ischemia del tumore l’effetto di farmaci anti-tumorali che rimangono nella zona del tumore a lungo (per settimane). L’effetto finale è quello del potenziamento dell’efficacia della procedura. Utile ricordare che l’uso dei chemioterapici nella TACE non provoca, se non raramente, gli effetti collaterali tipici della chemioterapia sistemica (es. perdita dei capelli, nausea, etc.) e ciò perché appunto la maggior parte dei farmaci iniettati in sede di procedura rimane nella sede del tumore e in quantità molto bassa passa in circolo.
Tra i rischi della TACE si possono ricordare le reazioni allergiche al mezzo di contrasto, all’anestesia locale o alla sostanza sclerosante denominata lipiodol. A volte si può osservare la formazione di un ematoma all’inguine nella sede della puntura arteriosa. L’ematoma inguinale a volte costringe alla immobilità a letto per 24-48 ore. Un altro effetto collaterale della TACE, che si osserva nel 30%-40% dei pazienti, è la “sindrome post-TACE”. Essa consiste in stanchezza, febbricola, inappetenza, vago dolore addominale e generale malessere per uno-due giorni dopo il trattamento. Anche se molto raramente, la TACE può essere utilizzata in altri tipi di tumori epatici non-HCC. L’embolizzazione e la chemioembolizzazione dei tumori del fegato sono procedure da eseguirsi in ambiente ospedaliero, in genere con ricoveri brevi. Sono trattamenti molto diffusi e di facile accesso in molti Centri dotati di radiologia interventistica.
TACE e TAE sono indicate per gli HCC in stadio “intermedio” cioè quando il tumore si presenta con numerosi noduli in varie sedi del fegato, in pazienti ancora in buon compenso da cirrosi, con moderata ipertensione portale. Tali trattamenti possono esser applicati ai pazienti in attesa di trapianto e anche nelle fasi pre-chirurgiche. In numerose occasioni la TACE può essere seguita dalla termoablazione dei residui del tumore o viceversa. In ogni caso è importantissimo che il piano di cure che comprende questo tipo di trattamenti sia concordato tra i vari specialisti coinvolti e sia tracciabile per le valutazioni in tema di risposta. È cioè cruciale che su esami TAC o RMN progressivi si valuti l’evoluzione della neoplasia nel tempo in relazione al trattamento deciso e praticato. Per tramite di valutazioni seriate di TAC o RMN si può cioè confermare o meno che il trattamento di combinazione intrapreso abbia causato la riduzione dell’estensione del tumore o se invece si sia osservata una progressione del quadro, che è la condizione necessaria a decidere di ripetere un nuovo trattamento o di passare a cure di altro tipo. Molti studi hanno confermato che l’effetto maggiore delle TACE si osserva nell’arco dei primi trattamenti e che la reiterazione degli stessi molte volte nel tempo può non dare alcun miglioramento rispetto a quanto ottenuto nei primi 2-3 cicli di cura. Alcuni protocolli di studio sono in corso per capire se la TACE ha un effetto migliorativo su alcuni farmaci da somministrare per via sistemica (tirosino-kinasi o immunoterapici). Maggiori informazioni in proposito si renderanno disponibili nei prossimi anni.
Radioembolizzazione transarteriosa (TARE o SIRT: radioterapia interna selettiva)
Un trattamento simile alla chemioembolizzazione nel metodo, ma molto diversa nei meccanismi di azione sul tumore è chiamata radioembolizzazione transarteriosa (TARE), anche definita come SIRT (selective intra-arterial radiotherapy). Si tratta anche in questo caso di una procedura endovascolare eseguita con lo stesso meccanismo della chemioembolizzazione, ovvero pungendo una arteria del corpo umano (in genere l’arteria femorale) e intro- ducendo in essa un microcatetere in grado di risalire attraverso l’aorta ai vasi arteriosi che arrivano al fegato e nutrono il tumore. Dal punto di vista del meccanismo di azione la radioembolizzazione si differenzia invece molto dalla chemioembolizzazione.
L’intero trattamento comprende due procedure separate solitamente da una settimana o due.
- La prima procedura è di fatto una procedura di simulazione e preparazione al trattamento vero e proprio che avviene nella seconda seduta. La prima procedura serve cioè a valutare l’anatomia dell’apporto arterioso al fegato ed a ottimizzare le condizioni delle arterie che dovranno veicolare il trattamento vero e proprio evitandone effetti collaterali. La prima procedura serve inoltre a misurare la dose radioterapica che può “uscire” dal fegato e contaminare altri organi, soprattutto i polmoni. Questa misurazione, effettuata con uno scanner in dotazione dei reparti di Medicina Nucleare, permette di escludere dalla radioembolizzazione quei pazienti in cui si evidenzi un passaggio di materiale radioattivo nei polmoni superiore al 20%. Il tali casi il secondo trattamento non viene eseguito perché gravato da un rischio troppo alto di danno da radiazioni ai polmoni.
- La seconda procedura è quella della vera terapia contro il tumore dove viene iniettata attraverso il microcatetere arterioso la dose terapeutica di particelle radioattive. Si tratta di microsfere artificiali in cui sono caricate molecole di un elemento chiamato Yttrio (abbreviato in: Y90) rese instabili. Le molecole di Y90 nel loro recupero della stabilità naturale “perdono” radiazioni che quindi si irraggia per pochi millimetri attorno ad ogni microsfera iniettata. Il meccanismo di azione è quindi legato alla radioterapia diretta contro le cellule tumorali e non alla ischemia (cioè alla sottrazione di sangue) che invece è alla base del meccanismo di azione della chemioembolizzazione.
A: preparazione della sede di puntura dell’arteria femorale; B) percorso del catetere all’interno dell’organismo (pro- cedura eseguita in anestesia locale); C) posizionamento del mocrocatetere nell’arteria che veicola il sangue al fegato e al tumore
La radioembolizzazione può essere seguita da malessere o dolori addominali, causati dal numero di particelle iniettato. Si tratta comunque di un sintomo che risponde agli antidolorifici. Anche per questa procedura in Italia è previsto il ricovero precauzionale di una notte in Ospedale, anche se in alcuni Centri esteri la radioembolizzazione viene eseguita in day-hospital. Il paziente sottoposto a radioembolizzazione non diventa radioattivo ma solo emetterà bassissimi livelli di radiazione nell’ambiente per circa una settimana. Tale radiazione non è minimamente pericolosa per i famigliari e le altre persone con cui il paziente venisse a contatto dopo la dimissione.
La radioembolizzazione è in genere eseguita una sola volta anche se in casi particolari può essere ripetuta (in genere non più di una volta).
Come nel caso della chemioembolizzazione, l’effetto della terapia radiante intra-arteriosa viene valutato a distanza di un mese e mezzo circa sulla base di una nuova TAC o RMN confrontata con quella pre-trattamento.
Progetto realizzato grazie al contributo non condizionante di Fondazione Roche.
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